Teoria dei limiti invalicabili
Un giorno mio cognato Vincenzo accenna ad alcune sue riflessioni personali, che chiama "Teoria dei limiti invalicabili". Mi sembra di capire che abbia in mente una teoria generale, applicabile a molti livelli, ma che per l'occasione fa riferimento ai dilemmi universali della filosofia. Qual'è il senso della vita? Il mondo ha uno scopo? Perché le cose esistono? Egli evidentemente ritiene che le risposte a queste domande appartengano ad un livello così lontano dalla natura umana (cioè quella di un organismo progettato per sopravvivere semplicemente in questo mondo, e perpetuarsi con la riproduzione), da rendersi assolutamente inafferrabili. Riflette per un momento sulle misure enormi che questo Universo sembra avere, e fatica a trovare una correlazione con la nostra vita personale. Mi fa poi l'esempio di un microbo che vive sulla tastiera di un computer (siamo a casa mia, e il computer sulla scrivania diventa il primo esempio che capita): è un organismo perfettamente adatto ha vivere nella sua porzione di mondo, ma quale rapporto ha con quel tasto? Come potrebbe mai concepire il significato del tasto, del computer collegato, della scienza informatica? Insomma ognuno ha un suo mondo in cui vivere, sembra affermare, che fa parte di sistemi superiori (e che forse è anche insieme di mondi inferiori) a lui completamente estranei, irreparabilmente al di là delle sue capacità cognitive e delle sue condizioni fisiche, e da cui è separato (appunto) da limiti invalicabili. Esistono perciò domande alle quali non sapremo mai rispondere.
Tutto ciò che vediamo intorno a noi, nella sua globalità, appare effettivamente di difficile comprensione. E' qualcosa che pone domande, ma le risposte non sono mai soddisfacenti, né definitive. E sono abbastanza d'accordo con Vincenzo, che condanna per sempre l'uomo curioso nella sua condizione di inappagato, stretto nei limiti della sua stessa natura. La teoria però si presta a qualche obiezione. Vincenzo assegna all'uomo, e quindi anche a sé stesso, capacità limitate, ma pretende di poter fare affermazioni inoppugnabili (la teoria non sembra accettare smentite). Inoltre, pur ammettendo di ignorare la profonda natura dei problemi in esame, ha già deciso che il microbo si trovi in condizioni più sfavorevoli di noi per comprendere le risposte che cerchiamo (e se invece il microcosmo fosse una condizione privilegiata, almeno per quanto riguarda il significato più intimo delle cose?). Voglio perciò tentare di indagare il problema, fin dove è possibile.
Credo che l'immensità dello Spazio e del Tempo non pongano tanto il problema di raggiungerne ogni elemento, quanto di abbracciarne il significato. Si tratta qui di capire se nella mente umana esistono realmente limiti invalicabili alla comprensione della realtà. E voglio allora dividere il problema in tre quesiti separati, in ordine gerarchico, a cui segue la mia opinione.
1) Innanzitutto: la comprensione della realtà, al suo livello più profondo, è riconducibile ai concetti umani di domanda e risposta?
2) Ammettendo che sia così, la mente umana saprebbe comprendere le risposte, se gli arrivassero da qualcuno che le conosce?
3) Infine, nel caso in cui nessuno potesse venire in nostro soccorso, la condizione umana e le leggi fisiche sono adeguate (concedendo alla tecnologia il tempo necessario a fornire gli strumenti adatti) per ottenere con le nostre forze le risposte a tutte le domande?
Il primo quesito è un po' criptico, anche per me che lo pongo. Poiché siamo in un territorio sconosciuto voglio essere prudente, e non dare per scontato che esistano risposte a tutte le domande. Il concetto stesso di domanda e risposta fa parte della nostra esperienza umana, ma potrebbero esistere ambiti in cui questo approccio non è logico, e non può dare risultati. Io sono però dell'opinione che qualsiasi aspetto della realtà può essere indagato ponendosi domande. E che qualsiasi domanda ha una qualche forma di risposta.
Ammettiamo quindi che le nostre domande abbiano tutte una risposta, che esista chi le conosce e che sia disposto a spiegarle. Saremmo in grado di capirle? Qualche limite effettivamente esiste. Si possono spiegare i colori a chi vede in bianco e nero? La nostra comprensione fa sempre ricorso alle nostre esperienze; per capire la gioia altrui la paragoniamo alla gioia che noi stessi abbiamo provato. L'esperienza comune è facilmente comprensibile; se parliamo invece di qualcosa che ci è estraneo dobbiamo far ricorso all'esperienza più simile, al prezzo di una comprensione più approssimativa. Ad un certo punto l'approssimazione potrebbe essere così grande da avvicinarsi molto alla mancanza di comprensione. Inoltre potrebbero esistere aspetti dell'esistenza, così lontani dalla nostra condizione umana, da essere comprensibili solo trasformandoci in qualcosa che non si può più chiamare essere umano.
Infine, nel caso in cui dovessimo trovare da soli le risposte a tutte le domande, ci riusciremmo mai? Nessuno può dirsi sicuro. Nonostante il progresso travolgente dell'ultimo secolo, continuiamo ad essere un punto periferico del Creato e non possiamo neppure dire quanto durerà il nostro slancio. Le dimensioni misteriose ed enormi con cui ci confrontiamo, di spazio, di tempo, di complessità, potrebbero rappresentare limiti invalicabili, che ci rinchiudono nel nostro mondo (comunque apprezzabile) oltre il quale esisterà sempre un ignoto fuori controllo. Potrebbero esistere dimensioni reali con cui non abbiamo alcun rapporto, di cui non immaginiamo neppure l'esistenza e su cui non saremo mai in grado di formulare neppure le domande giuste.
E' facile prevedere che almeno nella nostra vita non otterremo soddisfazione a tutte le nostre curiosità, condannati dai teorici limiti invalicabili. Ma potrebbe anche essere una fortuna: non è detto che tutte le risposte ci piacerebbero. E forse vivere continuando a farci domande, delle quali non conosciamo la risposta, potrebbe essere la cosa migliore che ci può capitare.
Maurizio Cavini
20 Maggio 2013